“The
Rider – il sogno di un cowboy” è una storia ambientata
nel West americano che ancora esiste ma che non fa più da sfondo ad una trama western.
Nel regno decadente del benessere
americano questo contemporaneo West selvaggio, forse non troppo dissimile da
quello della mitica Frontiera viva di orizzonti inesplorati e fortune improvvise,
oggi sembra essere solo l’avamposto di
solitudini e sogni che non superano lo steccato di un rodeo.
La storia si svolge nella riserva
indiana di Pine Ridge, nel South Dakota, dove Brady domando cavalli nei rodei
locali aspetta la chance per salire
tra i professionisti mentre i suoi risultati pompati dal tam-tam di YouTube (e
non dai segnali di fumo) ne fanno uno degli idoli locali degli adolescenti.
Domare cavalli, per la gente del posto,
significa adrenalina e applausi che rendono tollerabile la quotidianità in
cambio di quei secondi in groppa al demonio e Brady di certo non rinuncia a quel
momento in cui entra in contatto con
l’animale, avversario di una tauromachia moderna ma anche alleato verso la speranza
di gloria.
Brady non rinuncia nemmeno quando
l’amico Lane, il migliore dei cowboys del luogo, a causa di un disarcionamento
si trova paralizzato in un letto d’ospedale dove nemmeno le immagini dei rodei
vinti da Lane, catturate al lazo da YouTube, contribuiscono a lenire il dolore
che nessun cowboy può ascoltare se vuole
rimontare in sella.
Fino a quando lo zoccolo di un cavallo
non frantuma il cranio di Brady.
Coma, farmaci, il risveglio, qualche
canna e la sentenza dei medici: mai più a cavallo.
Per Brady significa mai più vita,
confinato nel ranch di famiglia, uno squallido prefabbricato sporco e isolato
nella prateria con quattro ronzini e rottami accumulati dal padre bevitore e
giocatore perdente alle slot-machines.
Gli amici spronano Brady con bevute e
falò ricordando le imprese dei cowboys
e di come tanti di questi siano stati capaci di rimontare in sella dopo
molteplici fratture, il padre inizia a contrattare la vendita del cavallo
preferito di Brady e l’unica che si preoccupa della salute del ragazzo è la
sorella autistica che gli ricorda “mai più cavalli!” lei, che nella solitudine
sociale della malattia, sembra aver capito l’importanza della frattura del
fratello, non tanto quella della placca di metallo che gli tiene insieme il
cranio ma quella della paura che lo stesso Brady sente e che non riesce ad
anestetizzare con canne e farmaci, la paura di tornare in sella e quella di
diventare un peso per la propria famiglia nel caso la vita lo disarcionasse per
un’ultima volta.
Brady,
abituato a domare mustangs selvaggi
per portare denaro a casa inizia a lavorare in un supermercato ma posizionando
dentifrici tra gli scaffali, a scalciare
è la sua passione. Torna ad avvicinarsi ai cavalli in un dialogo profondo con l’animale
e con se stesso fatto di timori, consapevolezza di rinascita e di sogni che
possono rimanere impigliati nel filo spinato della realtà.
Brady non “sussurra ai cavalli” ma guarda negli occhi il bisogno di fare una
scelta per la propria vita e la responsabilità di uscire dallo steccato della
giovinezza per diventare adulto.
Rimonta a cavallo, riprende contatto con
l’unica cosa che ama e che sa fare, il padre lo attende al varco, gli amici lo
supportano. Brady è pronto per il rodeo più importante.
Una storia atipica quella di “The Rider”,
raccontata con delicata crudezza dalla regista Chloe Zhao tra realismo e
docu-fiction rispettando gli spazi degli attori, tutti non professionisti, per
arrivare ad un finale non scontato che offre a Brady la possibilità di
diventare uomo.
Da vedere perché se il mito western è tramontato, ad eccezione dei
giochi che si può concedere Quentin Tarantino, gli uomini di quella terra oggi
dimenticata dal Governo sono tenaci e testardi come pionieri, legati alle
tradizioni e al rispetto degli animali come lo furono, e lo sono ancora, i
Nativi.
Da vedere perché è una storia della
provincia dell’impero lontana dalla nostra realtà ma vicina nei suoi aspetti di
marginalità, lotta per la vita e metafora di cambiamento.
Da vedere perché le quinte naturali
fanno ancora da sfondo alle emozioni dei protagonisti segnando il ritmo e l’evolversi
della narrazione.
Un bel film che racconta una bella
storia, ne vale la pena.
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